Google vuole tornare in Cina ma i dipendenti non ci stanno
Google vuole tornare in Cina ma i dipendenti non ci stanno

Da settimane, ormai, oltreoceano non si parla d’altro: secondo la stampa americana, infatti, gli ingegneri di Google starebbero lavorando su una nuova piattaforma che consentirà di riabilitare il servizio in Cina, filtrando i siti web e i termini di ricerca che sono stati inseriti nella lista nera dal governo di Pechino.

Del resto, tornare in Cina, coi suoi circa 800milioni di utenti connessi, rimane un vero e proprio sogno per le società che si occupano di servizi Internet: un bacino potenziale pazzesco dal quale i colossi californiani sono tagliati fuori a causa di leggi sulla censura molto ferree.

Il progetto, denominato in codice Dragonfly, è in corso dalla primavera dello scorso anno e ha subito un’accelerazione in seguito all’incontro di dicembre 2017 tra il CEO di Google, Sundar Pichai, e un alto funzionario del governo cinese, secondo documenti interni di Google e persone a conoscenza dei piani.

Secondo i media d’oltreoceano, il nuovo motore di ricerca da lanciare in Cina individuerebbe automaticamente i termini da censurare. Ed escluderebbe i risultati proibiti dalle prime pagine dei risultati. Tutto sarebbe accompagnato da un avviso: «Alcuni risultati potrebbero essere stati rimossi su richiesta governativa».

Tra i contenuti banditi ci sarebbero, per esempio, quelli di Bbc News e Wikipedia. La censura coinvolgerebbe diverse funzioni di ricerca: non solo testi, ma anche immagini e suggerimenti.

All’interno di Google, la conoscenza di Dragonfly è stata limitata a poche centinaia di membri della forza lavoro di 88.000 dipendenti del gigante di Internet, ha detto una fonte a conoscenza del progetto. La fonte ha parlato a The Intercept, a condizione di anonimato, in quanto non vi era autorizzazione a contattare i media.

Per ora si sta lavorando ad un’app, e non è chiaro se verrà rilasciata una ersione desktop.

I documenti visionati da The Intercept suggeriscono che Google gestirà l’app di ricerca come parte di una “joint venture”, con una società partner senza nome, che presumibilmente avrà base in Cina. Tuttavia, gran parte del lavoro sul progetto Dragonfly è in corso presso la sede di Google Mountain View in California, a circa 14 miglia a nord-ovest di San Josè, il cuore della Silicon Valley. Altri team che partecipano al progetto hanno base fuori dagli uffici di Google a New York, San Francisco, Sunnyvale, Santa Barbara, Cambridge, Washington D.C., Shanghai, Pechino e Tokyo.

Eppure, probabilmente, non tutto andrà liscio: un primo segnale arriva dagli stessi dipendenti del colosso, che nelle scorse hanno deciso di far sentire la propria voce.

Una petizione, racconta il New York Times, sta circolando internamente fra i dipendenti di Google ed è stata firmata da 1.400 ingegneri e richiede più trasparenza sulle strategie commerciali di Google, indicando che gli ingegneri del software vogliono una maggiore comprensione delle conseguenze etiche del loro lavoro.

Infatti, secondo quanto ha appreso il New York Times, l’apparente volontà da parte di Google di costruire una versione del proprio motore di ricerca che funzioni sulla base delle richieste e soprattutto della censura dello Stato cinese «solleva problemi etici e morali molto urgenti».

«Oggi non abbiamo a nostra disposizione le informazioni necessarie per fare una scelta eticamente informata sul nostro lavoro, sui nostri progetti, sul nostro lavoro da dipendenti di questa azienda», recita un altro passaggio della lettera scritta.

Il timore di molti dipendenti di Google di diventare complici di un regime che sopprime la libertà di pensiero e di espressione è tutt’altro che infondato. Dragonfly verrebbe infatti concepito in modo tale da rendere impossibile agli utenti l’accesso a siti web sgraditi al partito comunista al potere in Cina, e addirittura si autocensurerebbe impedendo la ricerca di termini scomodi come «diritti umani», «Tienanmen» o «religione».

La lettera ricalca quella scritta contro il progetto Maven, un contratto militare con gli Stati Uniti che Google ha poi deciso nel giugno scorso di non rinnovare proprio in seguito all’ondata di ‘attivismo interno’ che evidentemente la dirigenza dell’azienda non aveva più potuto ignorare.

Il Ceo di Google Sundai Pichar, dal canto suo, ha risposto alla lettera assicurando che i piani per un ritorno sul mercato cinese esistono, ma sarebbero «esplorativi» e «in una fase iniziale».

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